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giovedì 21 marzo 2013

Stavolta i nazisti vincono. Dead Snow

 
Da quando ho memoria, ho sempre sfrangiato a striscioline sottili i coglioni con la storia del nord Europa. E lo stato sociale, e le donne che in Svezia hanno ottenuto il diritto di voto prima che in altri paesi, e la liberalizzazione delle droghe leggere, e il design danese, e la rava, e la fava. Pensate quale gioia mi abbia attraversato il cuoricino quando all’elenco poc’anzi fatto ho potuto aggiungere un film con i nazisti zombi.
Dead Snow, per l’appunto. Film norvegese che oscilla tra momenti di genio totale e momenti di idiozia completa, che spesso – per inciso – coincidono.

DISCLAIMER: io non mi ricordo i nomi in italiano, figuriamoci in norvegese. Per comodità, chiamerò i protagonisti con questo schema: quello/a + caratteristica.

Siamo in Norvegia, durante le vacanze pasquali. Una neve che da noi manco se mettiamo insieme i giorni della merla per 10 anni di fila. Quello Bello, Quello Con Gli Occhiali, Quello Grasso e Quello Inutile decidono di passare un week end nella baita della ragazza di Quello Bello, Sara (lei era facile da ricordare). Ad accompagnarli 3 amiche, Quella Rasta, Quella Platino e Quella Zoccola. Lo scopo, è chiaro fin da subito, è accoppiarsi. Il regista ce lo comunica con sottili metafore, come Quello Con Gli Occhiali che mette la senape sul wurstel in mano a Quella Rasta e robe così.
Ora, io non capisco. I nostri protagonisti sono studenti universitari. Quindi con tutta probabilità vivono in studentati, appartamenti e simili. E non era più comodo organizzare una bella festa a casa e copulare nella comodità della camera, dello sgabuzzino, del bagno, insomma fate voi? Voglio dire, alla fine si va all’università proprio per evitare la camporella o il dover aspettare che mamma e papà non ci siano per un lasso di tempo abbastanza lungo. Perché doversi ficcare in una baita sperduta, dove si arriva dopo tre quarti d’ora di cammino immersi nella neve fino alle ginocchia, fredda ma soprattutto CON LA LATRINA ALL’ESTERNO, che altro che crollo verticale della libido? Anche perché poi il rischio è quello di avere a che fare con i nazisti zombi che vivono nel bosco accanto alla baita. Zombi che, precisiamo, non hanno nulla della frastornata lentezza zombesca che siamo soliti vedere sullo schermo: questi non solo corrono, si arrampicano pure sugli alberi. Ovvio che non ci sia possibilità di uscirne vivi. No, fidatevi, non sto spoilerando. Perché, tirando in ballo Kerouac, come non è importante dove si va, ma il viaggio in sé, così non conta il finale di morte totale, ma il modo spettacolare in cui si arriva a quella carneficina.
Conta la bellezza del sangue rossissimo sulla neve immacolata, contano le budella in ogni dove, conta l’ironia che regna sovrana, conta che questi se magnano e mordono tutto, patata inclusa, e no, non parlo del tubero.
Sì, a volte il film ha dei momenti in cui pare uno spot della Colmar, ma uno spot della Colmar in cui Quello Grasso viene aperto in due come una noce partendo dalla testa, a mani nude, con il cervello che finisce sul pavimento come una frittata girata male. Capite quanta bellezza? Su tutto, 3 scene che meritano da sole il film:

1)    Il massacro che Quello Con Gli Occhiali e Quello Inutile compiono ai danni dei nazisti, dove si spara, si taglia e si ammazza mentre in sottofondo si sente una allegra musichetta natalizia – lo so che è pasqua ma il mio cervello dice così – norvegese.
2)    Quello con gli occhiali che, in seguito al morso di uno zombi e per paura del contagio, si amputa da solo un braccio e se lo cauterizza su un cadavere fumante.
3)    Quella Zoccola che raggiunge nella latrina Quello Grasso, che aveva dichiarato di andare lì per cagare, e decide di farselo a smorzacandela mentre lui è ANCORA LÌ SUL CESSO. Capite? Se lo fa mentre lui sta ancora smollando. E se non trovate raccapricciante questo, io davvero non so cosa altro possano inventarsi.


lunedì 18 marzo 2013

Ho timòre che sia una cagata. Amiche da morire

Era il 1999. Io guardavo abitualmente Mtv. Mariah Carey aveva lanciato il singolo “Heartbreaker”. Io vedevo Mariah Carey, e vedevo i suoi levi’s con la cinta tagliata via. Il mio cervello faceva così: mtv, mariahcarey, levi’s, mtv, mariahcarey, levi’s, mtv, mariahcarey, marta vuoi quei jeans. E insomma, invece di fare come le persone intelligenti e vittime del consumismo, che vanno in negozio e comprano robe fatte da altri, io decisi di operare da sola. Lo feci, e il risultato furono dei pantaloni da cui allegramente spuntava la mia gettoniera. Un orrore.
Questo per dirvi che le persone fanno cazzate. Continuamente. Proprio come questo film. La trama: Olivia, Gilda e Crocetta vivono in un’isoletta siciliana, a giudicare dall’accento che tentano pessimamente di riprodurre. Olivia è sposata col bello del paese, ma teme che la cornifichi. Crocetta lavora in un tonnificio, non trova un fidanzato e porta iella. Gilda fa la prostituta, e in pratica è malvista da tutto il paese. Le tre non hanno in sostanza rapporti tra loro, sennonché, per un caso fortuito, Gilda e Crocetta assistono all’omicidio compiuto da Olivia ai danni del marito, che si scopre essere un rapinatore di banche. Le tre diventano complici, con un milione di euro da dividere e un cadavere da eliminare. Vi ho già detto che Crocetta lavora in un tonnificio, vero? Diciamo che ‘sto film vi farà passare la voglia di scatolette per un po’ di tempo.
Ovviamente, il tutto con la polizia che indaga e il paese che sparla di questa nuova, improvvisa amicizia.
Ma quali sono le cazzate che vi ho anticipato? Beh, anzitutto quella della Capotondi di accettare di recitare qui. Figlia mia, hai fatto questo gioiello qui, come hai potuto accettare un progetto simile? Che non fossi del tutto sana lo sospettavo da quando ti sei messa con Andrea Pezzi, e fosse stato il 1999, mentre io stagliuzzavo i miei jeans, t’avrei stretto la mano, ma ora, ingrassato e con una stempiatura che gli arriva ai talloni, la mano te la meriti in faccia, per svegliarti.
E poi, la Impacciatore e la Capotondi che recitano con la cadenza siciliana non si possono sentire. Viene voglia di soffocarle fortissimo con degli arancini pur di farle tacere.
Ma andiamo avanti. La frase tormentone, manco fossimo a zelig, “ho timòre”, con la o apertissima proprio come fanno i siciliani doc nelle fiction che evidentemente le attrici hanno osservato per preparare i personaggi. Ne avevamo bisogno? No.

I luoghi comuni, tanti e tanti e tanti ancora, che proprio tutti li hanno messi, io mi immagino gli sceneggiatori che controllavano: la matrona del sud cicciona che cucina, celo; la sfigata con la madre invadente, celo; le battute sulle corna col vecchio che muore trombando e tutti i maschi del paese che lo invidiano, celo; le gag tra donne sul sesso, celo; la prostituta dal buon cuore, dentro pure quella.
Una recitazione francamente discutibile, esagerata, come quando uscite con gli amici e bevete, e uno se ne passa, e lì per lì fa pure ridere, ma dopo un po’ chiedere scusa agli sconosciuti per la sua molestia diventa una rottura di palle.
Insomma, cazzate come i canditi nella cassata, per rubare una battuta del film.
Di tutto questo tre cose mi sono rimaste: 

1) La strusciata di minne casual, mossa che, se messa in atto, pare assicurare la servitù e totale capitolazione maschile. 
  
Le tette della Gerini salutano il pubblico in sala.

2) Gli scorci ambientali, col tuffo in quel mare incredibile che le protagoniste fanno verso la fine, che vi fa venire voglia di uscire di corsa dal cinema – come se non bastasse già il film in sé per questo – e andare a preparare una valigia il cui unico contenuto è un costume.

3) Le tette incredibili della Gerini. Dico davvero, guardi il film e l’unica cosa a cui riesci a pensare sono le tette della Gerini e il loro messaggio di speranza: se hanno fatto uscire delle bocce simili a una che ne era quasi sprovvista, allora può succedere tutto, magari anche che la sinistra vinca le elezioni.

giovedì 14 marzo 2013

Era meglio il pezzo delle Spice. Mama.

Farsi la manicure, coccolare il gatto, fissare i muratori fuori dalla finestra: per esperienza personale, sono solo alcune delle attività che potreste intraprendere durante la visione di "Mama" - premurosamente tradotto in Italia con "La Madre". Un horror avvincente, non c'è che dire.

Mi ricordo che una volta, quand'ero molto piccola, i miei genitori ricevettero un invito a una specie di evento dedicato ai bambini. Non chiedetemi i dettagli: parliamo di un'epoca in cui la pedofilia era ancora ben nascosta in canonica e non sbandierata sui quotidiani. Quindi i miei abboccarono come fessi e mi ci portarono davvero. Fatto sta che una volta arrivati all'happening non trovammo né clown né preti vogliosi. Ma soltanto dei tizi che, in cambio di un palloncino, volevano convincerci a comprare delle enciclopedie.
Ecco, dopo aver guardato Mama, provo esattamente la stessa sensazione che mi assalì in quel lontano pomeriggio. Una sensazione riassumibile così:


Per carità, mea culpa: dopo vent'anni passati a guardare horror, da Profondo Rosso a La sposa di Chucky, dovrei ormai aver imparato a non farmi abbindolare.
E invece, no. Anche stavolta, la mente più brillante dietro Mama si rivela essere colui che ha curato il montaggio del trailer. A quest'uomo vorrei proprio stringere la mano e consigliare di entrare in politica. Naturalmente dopo avergli rigato la macchina, ammazzato il cane e lasciato delle feci davanti casa.

Ma entriamo nel vivo di questo adrenalinico film!

Dal trailer, si era già appreso che: uomo in bancarotta uccide la moglie, rapisce le figlie portandole in un bosco, fa per uccidere anche loro ma una forza misteriosa glielo impedisce e lo elimina. Stacco. Dopo sei anni le due bambine vengono ritrovate dallo zio: sono ridotte allo stato brado, non si capisce come siano sopravvissute per tutto quel tempo da sole. La cosa è molto sospetta, tuttavia lo zio non indaga e decide di adottarle. E iniziano subito le magagne: una presenza malefica sembra proteggere e bambine e minacciare tutti gli altri. Notate bene che tutto questo ce lo racconta già il trailer. Notate bene anche che il titolo del film è "La Madre".

Sostanzialmente quindi il passo avanti, se proprio decidete di vedere questo film, sarà scoprire di chi è questa Madre. E quindi vai di assistente sociale ficcanaso, disegni infantili inquietanti e armadi misteriosamente socchiusi.
Insomma la faccenda si trascina in modo così scontato e lento che, quando finalmente viene fuori l'identità dell'essere, voi probabilmente starete riempiendo Instagram di foto di piedi e mozziconi di sigarette.
Per la noia, si capisce. Mica perché siete dei poser da quattro soldi.

Per concludere, una menzione d'onore spetta agli effetti speciali. Voglio dire, vi siete fracassati le palle per un'ora e mezza ma hey, quando alla fine si vede il fantasma cattivo, pelle d'oca:


lunedì 11 marzo 2013

La verità è che non ti piaci abbastanza. Tiny Furniture.

La prima volta che ho messo in bocca una sigaretta avevo 12 anni ed ero chiusa nel bagno di un’amica. Lei aveva appena rubato un paio di MS alla madre perché insomma, se lo facevano i nostri genitori era giusto che provassimo anche noi ecc. ecc.
Si, sto dicendo questo, mamme e papà: se i vostri figli fumano è colpa vostra.
Comunque sia, il primo impatto con la nicotina è stato negativo: una roba strana, disgustosa e incomprensibile. Incomprensibile nel senso che non vedevo proprio cosa ci trovassero di tanto entusiasmante i fumatori.
Tuttavia, altrettanto incomprensibilmente, con il passare del tempo ho iniziato anch’io ad appassionarmi alla cosa. Col risultato che adesso regalo la pagnotta quotidiana ai dipendenti della Malboro.

Ora, rileggete tutto questo preambolo e al posto di “nicotina” metteteci “Lena Dunham”. Avrete così un’idea di come questa maledetta sceneggiatrice/regista/attrice/factotum sia entrata nelle nostre vite.
Si, perché non prendiamoci in giro: la prima volta che la vedete completamente nuda e completamente in sovrappeso, che si contorce a scopo sessuale in una qualsiasi puntata di Girls, non potete non provare disgusto. Dai. Pochi cazzi: il femminismo è una bella cosa, ma grazie a Dio l’essere umano mira all’aspirazionalità.
Tuttavia, c’è qualcosa in quello che Lena scrive che ci spinge a darle una seconda e poi una terza chance. Con il risultato che alla fine ci ritroviamo con gli occhi lucidi a guardare in loop Jessa e Hannah nella vasca.

Perché succede questo è molto semplice: la Dunham siamo noi. E noi, nel 90% dei casi, ci detestiamo. Guardare le opere della Dunham è troppo simile al guardarsi in uno specchio. E quindi grazie, ma no, grazie.
Il discorso vale per Girls come per Tiny Furniture: lungometraggio del 2010, in cui ritroviamo non solo la Dunham (ché anche il complesso di Atlante è una tipica roba femminile) ma anche Jemima Kirke e Alex Karpovsky. Curiosità: madre&sorella di Aura sono in effetti madre&sorella della Duhnam. Una scelta che qui in Italia avrebbe dato origine a una sequela infinita di “Cagna! Cagna meledetta!”, e che in “Tiny Furniture” ci fa solo pensare che il talento piove sempre sul bagnato.

Esattamente come per Girls, nemmeno qui Lena mette in piedi una vera e propria trama: più che altro si limita a raccontarci di Aura, neolaureata twenty-something che, finito il college, torna a casa e cerca di capire cosa fare di sé. Quel momento insomma in cui, dal sospetto che la vita sia una merda, si passa alla conferma. Specie per una generazione destinata alla precarietà lavorativa/sentimentale/inserire qui un aggettivo a caso, ché tanto vanno bene tutti.
Vi siete depresse? Avete fatto male, perché la morale è: se la vostra vita è un disastro, tutto ciò che dovete fare è trasformarla in sceneggiatura.
Ci saranno sempre delle disperate come voi che pagheranno per applaudirvi.


venerdì 8 marzo 2013

8 Marzo: niente fiori, ma vendetevi un rene.


Uomini, parliamoci chiaro: le mimose sono l’equivalente femminile dei boxer che ogni Natale vi regala mammà.
Donne, parliamoci chiaro: se proprio volete cedere al fascino consumista di questa festa anche vagamente offensiva, puntate più alto.


Per la precisione, puntate a questa wishlist:


 



















































































































 



















martedì 5 marzo 2013

Dopo Lost, la vita è un inferno. 666 Park Avenue.


Intendiamoci: io non sono mai stata una fan dell’isola. A metà della seconda stagione, iniziando a subodorare una certa qual presa per i fondelli da parte degli sceneggiatori, ho mollato Lost senza rimpianti. Ma naturalmente nel frattempo avevo già subito il fascino canuto e sotuttoio di John Locke.

Per cui immaginatevi la mia gioia, quando me lo sono ritrovato protagonista di una serie che addirittura SI CAPISCE. La serie in questione è 666 Park Avenue e come garanzia di qualità posso dirvi che negli USA è già stata sospesa. Considerato che la stessa sorte tocca a tutti i prodotti non troppo fatti a cazzo di cane, direi che vale la pena dargli una chance.
Trama, in sintesi: se Lost aveva posto la domanda, 666 Park Avenue ci dà la risposta. Così:

 
“Ma com’è che Locke ne sa sempre una più del diavolo?”
“Ahhh, ecco…”.

In 666 Park Avenue il nostro Terry O'Quinn si chiama Gavin Doran, per gli amici: Mefistofele. È ricco, pressoché onnipotente e proprietario di un lussuoso condominio newyorkese. Ma tranquilli, l’affitto non è un problema, nemmeno per gli inquilini con il conto sotto zero: Mr Doran infatti ai contanti preferisce l’anima.
In pratica, dall’isola-purgatorio, ritroviamo Locke nel palazzo-inferno: c’è l’aspirante giornalista che si vende in cambio del successo, l’invalida che si vende in cambio di un paio di gambe funzionanti, persino il vedovo a cui viene restituita la moglie morta. Piccolo dettaglio: lo scambio finisce sempre così: 


A contrastare la tranquilla routine del demone, entrano però in scena Henry e Jane: pezzenti anche loro, ottengono un appartamento che nemmeno Nathan Falco per il suo diciottesimo compleanno. Ma anziché starsene buona buona pensando tra sé “…Buscio de culo!!!”, Jane si insospettisce di tanta generosità e inizia a indagare sulla famiglia Doran. Mentre il fidanzato si fa spudoratamente conquistare dal diabolico padrone di casa, fino a prostrarsi ai suoi piedi tipo pelle di leone. 

Insomma, se avete visto “L’avvocato del diavolo” o “Rosemary’s Baby”, l’andazzo lo conoscete già. Quello che davvero c’è di interessante in 666 Park Avenue è tutto il contorno: le storie dei personaggi secondari e delle loro miserie. Vedere quanto in basso si possa cadere per veder realizzata un’ambizione ci fa sentire tutti persone migliori.
 
Detto ciò, se c’è qualche demone che mi legge: io mi venderei volentieri in cambio di un best-seller scritto male e in mezzora. La butto lì.