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giovedì 26 febbraio 2015

Uccello inossidabile - Cinquanta sfumature di grigio

"Sei falso come la bilancia del porchettaro".  
 
Così si dice, dalle mie parti, di quelle persone che hanno un rapporto con la verità un po' elastico. In pratica 50 sfumature sta all'erotismo come la bilancia del venditore di porchetta sta all'onestà.
Il film racconta la storia tra Christian Grey e Anastasia Steel, e no, non spenderò neppure una parola sul fatto che il diminutivo della protagonista di un film pseudo-erotico sia Ana.
No, vabbé, voglio spenderla. Perché non chiamarla, che ne so, Camporella? Anche Smorzacandela non era male, un po' lungo forse.
So che è inutile raccontare la trama, quindi passerò direttamente alle perle che queste due ore di nulla ci regalano. A cominciare dalla protagonista, Dakota Johnson, la cui recitazione lavora per sottrazione, sottrazione di talento nella fattispecie. 
E come non citare i brillanti dialoghi, una sfida tra gli sceneggiatori e l'alfabeto, con i primi che sono riusciti nell'impresa di utilizzare solo tre vocali e una consonante per scrivere tutte le battute del film.

"Ahhh"
"Ohhhh"
"Uhhh! Uhhhh! Uhhh!"

Non voglio neppure dimenticare le sottili metafore sessuali, come nella scena dove Ana mordicchia la punta di una penna brandizzata "Grey Enterprises". Eh, EH?!
Apriamo poi il capitolo Christian.
Christian, il favoloso amante che ha avuto ben QUINDICI donne nella sua vita - qualcuna in meno del gatto Doraemon - e che cita Aladdin di Walt Disney pur di portarsi a letto Anastasia.
"Ti fidi di me?"

Christian, il dio del sesso che reagisce come un quattordicenne beccato a farsi un seghino in bagno quando la madre gli fa una visita a sorpresa mentre lui è in camera con Ana.
Christian, il latin lover che si diletta in pratiche sessuali estreme spericulate, come bendare la sua partner, passarle un cubetto di ghiaccio sui capezzoli, legarle i polsi!
E mentre Ana è lì tutta concentrata nell'intento di stimare al millimetro quanto ce lo ha lungo perché non vede l'ora di raccontare tutto alle amiche, quello se ne esce con l'accordo di riservatezza da firmare. Christian, prova a metterti nei panni di una donna: se poi non posso analizzare con le mie amiche fino alla nausea se il lieve battere della tua palpebra mentre ti sfilavi i pantaloni significa che mi richiamerai fra tre giorni o fra tre giorni e mezzo, che senso ha fare sesso? è come se a un uomo regalassero una playstation ma senza controller, "Mi raccomando, divertiti!".
Pompini. Una sottile metafora visiva.

Ma le richieste del dominatore non finiscono qui, visto che Ana non può bere alcolici, fumare, drogarsi, ed è obbligata a fare ginnastica, e questo in effetti è sadomasochismo, non posso negarlo. Va detto però che il mondo dell'audiovisivo ci ha regalato masochisti di gran lunga superiori.
La cosa grave del film, però, non è tanto che faccia schifo, perché di pellicole orribili è pieno il mondo, quanto che sia ambientato a Seattle. Questo significa che per le future generazion, Seattle non sarà la città del grunge, ma la città di Grey. E se il film fosse uscito nel 1994, Kurt Cobain avrebbe avuto davvero un buon motivo per suicidarsi. 

Sesso estremo. Cosa abbiamo visto vs cosa avremmo voluto vedere.

giovedì 5 febbraio 2015

Era meglio la marmotta che confezionava la cioccolata – Zombeavers

“Ricapitoliamo, signor Rubin. Lei vuole fare un film su dei castori zombie che uccidono degli studenti in vacanza in una casa in campagna. E vuole che io le dia dei soldi.”

“Esatto, signor Produttore!”

“E come pensa di trascinare i giovinetti al cinema per vedere questo … film?”

“Ma è semplice signor Produttore. Come se fossi un contadino ucraino di fronte a un campo: disseminandolo di patata.”

“PRESTO! UN ASSEGNO PER QUEST’UOMO!”



Innovative tecniche di marketing.
E quindi, oggi si parla di “Zombeavers”. La trama ve l’ho praticamente riassunta nelle prime due righe, ma approfondiamo: un fusto di rifiuti pericolosi rotola da un camion durante lo spostamento e finisce nella diga di un gruppo di castori.

Nel frattempo, Mary, Zoe e Jenn, tre amiche del college, decidono di passare un fine settimana nella casa di campagna dei cugini di Mary. Il piano è disintossicarsi da ragazzi e cellulari, perché Sam, il ragazzo di Jenn, l’ha tradita con una non identificata ragazza.

Lui che tradisce lei. Signori, la fantascienza.
I fidanzati delle tre però decidono di presentarsi a sorpresa, perché agli sceneggiatori far morire solo tre persone non sembrava carino. Da qui in poi inizia una lotta senza quartiere con gli scaltri castori, i quali hanno evidentemente nozioni di comunicazione e radiazione elettromagnetica perché capiscono che tagliare i fili del telefono equivale a isolare dal resto del mondo le loro prede.

La visione del film, che immagino avrete capito è un po’ una vaccata, mi ha sollevato tutta una serie di dubbi a cui ho invano tentato di dare risposta:

 
Il feroce leader dei castori zombie.

-Perché i pupazzi dei castori sono fatti così male? Avete bussato alla Trudi e avete trovato chiuso?

-Perché i castori entrano in contatto con l’acqua del lago e si zombizzano mentre i villeggianti no? Il consulente scientifico del film è forse Roberto Giacobbo?
-Non bastavano i castori? Perché avete voluto far recitare pure i cani?

-Perché tre belle ragazze stanno insieme a tre uomini che, volendo fare un complimento, potrei solo definire cessi a pedali? È perché, contrariamente ad Alex Britti, noi donne non preferiamo stare qui da sole che con una finta compagnia?

-Perché le tette si vedono così poco? (questo è l’interrogativo che premeva il mio ragazzo)

-Perché, se volevo vedere dei castori, non mi sono limita a questi?

-Perché madre natura non mi ha dotata del fisico dell’attrice che interpreta Jenn?

-Ma soprattutto, perché ho visto questo film?

 
Espressione tipo dello spettatore durante il film.

Perché “Pride and prejudice and zombies”, film dove il mio libro preferito – la cui trama è alla base di circa il 95,233342% dei chick flick – si fonde con i miei mostri preferiti, e che porterà a eventi epocali come la discesa dei cavalieri dell’Apocalisse, lo svelamento del contenuto della valigetta di “Pulp Fiction” e la rottura della lama dei coltelli di Chef Tony, non è ancora uscito.


lunedì 2 febbraio 2015

You had me at “Il pene di Michael Fassbender” – The Mindy Project

Dove eravamo rimasti?
È passato un anno. Di merda, per inciso. Ma io ho avuto un atteggiamento molto maturo di fronte ai problemi. Ho guardato serie tv, la soluzione perfetta per procrastinare la realtà e convincersi che i problemi che ci affliggono siano risolvibili.
Quindi, citando un grande interprete della canzone italiana, “ricominciamo”.
Una delle mie migliori amiche ha capito che eravamo fatte l’una per l’altra il primo giorno del master  che ci ha fatto entrare nel baratro di disperazione che è il nostro lavoro incontrare, quando durante il giro di presentazioni io ho esordito dicendo che ero a dieta più o meno dall’età di 15 anni. Sono certi dettagli scemi che ti fanno capire che hai trovato un motivo in più per uscire la sera. O per non uscire, come nel caso di “The Mindy Project”. Per me è stato questo
 
Priorità. Un esempio.
Anche io.
Una serie con protagonista una ragazza come noi: ossessionata dal cibo, che non riesce a stare a dieta, con tendenze allo stalking e sconvolta per sempre dalla visione di “Shame”.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mindy è una ginecologa che vive a New York. Lavora in uno studio con altri due, che nel corso delle stagioni diventeranno tre, medici. Con uno di loro ha un rapporto molto conflittuale, genere Elizabeth & Darcy. Ovviamente è quello di cui si innamorerà (no, non è uno spoiler, è una cosa che capirete fin dalla prima puntata).
The Mindy Project è questo: un chick flick che invece di durare due ore, va avanti – a oggi – per 2 stagioni e 13 episodi.
C’è tutto quello che serve per indurre un serio caso di binge-watching:
a) Una cabina armadio. E sì, è più grande di quella di Carrie Bradshaw.
b) Decine di borse Chanel. Dico davvero. Ho smesso di contarle. Di qualsiasi colore e dimensione.

c) Ragazzi. Tanti, belli, e tutti desiderosi di uscire con una che, come avrete notato, non è propriamente Eva Green. Anche perché Mindy Kaling è protagonista e autrice, e se io avessi la fortuna di scrivere e recitare nella mia serie, passerei ogni puntata a limonare a turno con Fassbender, Gosling e Pattinson.
Chiamala scema.

d) Ha – almeno per ora – il lieto fine. E lo so che a volte abbiamo soltanto voglia di vedere storie che finiscono male per abbandonarci alla disperazione più bieca, al pianto più sfranto e ai cibi più citati nelle top ten delle cause di infarto. Ma “Girls” c’è una sola sera a settimana, quindi dobbiamo trovare qualcosa da fare per i restanti sei giorni.
e) Mindy è ossessionata dalle commedie romantiche, come noi, per cui si crea quello speciale rapporto che è così comune in gruppi di persone che condividono la stessa passione, come gli alcolisti anonimi.
f) Fa ridere. Che è quello che conta davvero. Non posso mettervi lo screenshot di ogni puntata, quindi dovrete fidarvi. Fa ridere per come rovescia e rende ridicole situazioni molto romantiche. Fa ridere perché le battute sono ben scritte. Fa ridere perché vedere le follie che mettiamo in atto quando siamo alla ricerca di un fidanzato – e anche quando lo abbiamo trovato – ci fa capire che non siamo le sole a farlo. E dà al nostro cervello la giustificazione per continuare a comportarci nelle maniere più ignobili e irrazionali che riusciamo a trovare.