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martedì 4 settembre 2012

Quando non basta neppure Lanvin. I love shopping.


Avete presente Jennifer Aniston, no? Ha capelli stupendi, un culo incredibile, begli occhi, gran gusto nel vestire (o nello scegliersi le stylist) e non è nemmeno la peggiore delle attrici, eppure. Eppure non è bastato a tenersi QUELLO.
I love shopping è così. Non basta. E, credetemi, i mezzi per farmelo annoverare tra i film che guardo talmente tante volte da provocare crisi di isteria al mac li aveva tutti.
Trama. Rebecca ha due problemi: il traforo del Frejus che le solca le mani, e Derek Smeath, il tizio del recupero crediti che la perseguita a causa dei debiti contratti con lo shopping. Quando perde il lavoro, trova occupazione come giornalista economica, che è un po’ come se Jessica Rizzo scrivesse per Avvenire. Comunque, parla di soldi, e se la cava anche piuttosto bene, e si innamora – ricambiata – del caporedattore, ma dato che siamo in un film, e quei 107 minuti vanno riempiti, tutto va più o meno a puttane e lei deve rimediare. Le premesse erano ottime.
Anzitutto mi dai un’attrice protagonista con i capelli rossi. Io venero i capelli rossi. Darei un rene per essere rossa naturale. Tanto ne ho un altro. E poi Isla Fisher, sarà che a forza di vivere con Sacha Baron Cohen una diventa divertente anche solo per il fatto di fare la cacca nella stessa stanza in cui la fa lui o sarà talento naturale, dicevo Isla Fisher ha tempi comici perfetti.
Mi metti un cast a dir poco stellare: c’è Joan Cusack; c’è Kristin Scott Thomas; c’è Lynn Redgrave; c’è John Goodman (la cui carriera è a un bivio, nel senso che o fa il padre di protagoniste di chick flick, v. anche “Le ragazze del Coyote Ugly”, o lavora con i Cohen).
Poi mi dai il GAI, Giovane Attore Inglese: Hugh Dancy. Che d’accordo, è sposato con Claire Danes, quindi molto intelligente non può essere. Però Dio, se è carino. Con quegli occhioni azzurri, la pelle rosina, l’aria elegante…
Non paghi, anche un regista che, quanto a chick flick, ne sa a pacchi: P. J. Hogan. Che ha diretto “Le nozze di Muriel”, che è il VERO film sugli Abba, altro che “Mamma mia!” (e che dovete assolutamente vedere, perché è una piccola perla). Che ha diretto, soprattutto, “Il matrimonio del mio migliore amico”. Ossia il film dove uomini vestiti da aragosta cantano “I say a little prayer”. Dove Rupert Everett fa il verso a James Bond. Ma soprattutto, dove Julia maledetta Roberts non vince. Insomma, un signor regista.
Dulcis in fundo, mi metti lei, DIO in persona, come costume designer. 
Patricia Field. Che è la donna dietro “Sex and the city” (dietro i vestiti di SATC, che in pratica è lo stesso). Dietro “Il diavolo veste Prada”. Insomma la Treccani dello stile. Che, se hai un appuntamento di qualsivoglia natura e non sai che metterti, basta guardarti una puntata di QUELLA SERIE e hai risolto. La donna che “se c’è lei, allora lo guardo”. La fata madrina che tutte vorremmo. La pianto, ma avete capito.
Insomma, se nonostante tutto questo non mi è piaciuto, vuol dire che non ne vale la pena. Perché non ha ritmo. Perché, tolta la Fisher, gli altri recitano senza convinzione. Perché è talmente poco interessante, che mentre lo vedete sarete distratti da tutto il resto “oh, avrò dato l’anticalcare al ferro da stiro? Fammi vedere va’”.
Quindi, se vuoi far un film tratto da un libro per donne che ha venduto un casino (celo), su una tizia che lavora nell’editoria (celo), con i vestiti come protagonisti principali (celo), con una direttora di rivista stronza e interpretata da un’attrice famosa (celo) e soprattutto con la überstylist (celo), tanto vale che fai “Il diavolo veste Prada 2”.

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