Avete
presente Jennifer Aniston, no? Ha capelli stupendi, un culo incredibile,
begli occhi, gran gusto nel vestire (o nello scegliersi le stylist) e non è
nemmeno la peggiore delle attrici, eppure. Eppure non è bastato a tenersi
QUELLO.
I
love shopping è così. Non basta. E, credetemi, i mezzi per farmelo annoverare
tra i film che guardo talmente tante volte da provocare crisi di isteria al mac
li aveva tutti.
Trama.
Rebecca ha due problemi: il traforo del Frejus che le solca le mani, e Derek
Smeath, il tizio del recupero crediti che la perseguita a causa dei debiti
contratti con lo shopping. Quando perde il lavoro, trova occupazione come
giornalista economica, che è un po’ come se Jessica Rizzo scrivesse per
Avvenire. Comunque, parla di soldi, e se la cava anche piuttosto bene, e si
innamora – ricambiata – del caporedattore, ma dato che siamo in un film, e quei
107 minuti vanno riempiti, tutto va più o meno a puttane e lei deve rimediare.
Le premesse erano ottime.
Anzitutto
mi dai un’attrice protagonista con i capelli rossi. Io venero i capelli rossi.
Darei un rene per essere rossa naturale. Tanto ne ho un altro. E poi Isla
Fisher, sarà che a forza di vivere con Sacha Baron Cohen una diventa divertente
anche solo per il fatto di fare la cacca nella stessa stanza in cui la fa lui o
sarà talento naturale, dicevo Isla Fisher ha tempi comici perfetti.
Mi
metti un cast a dir poco stellare: c’è Joan Cusack; c’è Kristin Scott Thomas;
c’è Lynn Redgrave; c’è John Goodman (la cui carriera è a un bivio, nel senso
che o fa il padre di protagoniste di chick flick, v. anche “Le ragazze del
Coyote Ugly”, o lavora con i Cohen).
Poi
mi dai il GAI, Giovane Attore Inglese: Hugh Dancy. Che d’accordo, è sposato con
Claire Danes, quindi molto intelligente non può essere. Però Dio, se è carino.
Con quegli occhioni azzurri, la pelle rosina, l’aria elegante…
Non
paghi, anche un regista che, quanto a chick flick, ne sa a pacchi: P. J. Hogan.
Che ha diretto “Le nozze di Muriel”, che è il VERO film sugli Abba, altro che
“Mamma mia!” (e che dovete assolutamente vedere, perché è una piccola perla).
Che ha diretto, soprattutto, “Il matrimonio del mio migliore amico”. Ossia il
film dove uomini vestiti da aragosta cantano “I say a little prayer”. Dove
Rupert Everett fa il verso a James Bond. Ma soprattutto, dove Julia maledetta
Roberts non vince. Insomma, un signor regista.
Dulcis
in fundo, mi metti lei, DIO in persona, come costume designer.
Patricia Field.
Che è la donna dietro “Sex and the city” (dietro i vestiti di SATC, che in
pratica è lo stesso). Dietro “Il diavolo veste Prada”. Insomma la Treccani
dello stile. Che, se hai un appuntamento di qualsivoglia natura e non sai che
metterti, basta guardarti una puntata di QUELLA SERIE e hai risolto. La donna
che “se c’è lei, allora lo guardo”. La fata madrina che tutte vorremmo. La
pianto, ma avete capito.
Insomma,
se nonostante tutto questo non mi è piaciuto, vuol dire che non ne vale la
pena. Perché non ha ritmo. Perché, tolta la Fisher, gli altri recitano senza
convinzione. Perché è talmente poco interessante, che mentre lo vedete sarete
distratti da tutto il resto “oh, avrò dato l’anticalcare al ferro da stiro? Fammi
vedere va’”.
Quindi,
se vuoi far un film tratto da un libro per donne che ha venduto un casino
(celo), su una tizia che lavora nell’editoria (celo), con i vestiti come protagonisti
principali (celo), con una direttora di rivista stronza e interpretata da
un’attrice famosa (celo) e soprattutto con la überstylist (celo), tanto vale che fai “Il diavolo
veste Prada 2”.
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