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venerdì 30 novembre 2012

Ma le gambe, ma le gambe, a noi piacciono di più. Che fine ha fatto Baby Jane.



Ognuno di noi ha un dono. La signora Famoso Iole, ad esempio, maga che operava nelle tv regionali quando ero una giovine fanciulla, diceva nel suo spot che “sendo una forza dendro di me che neanche io so shpiegare come, comunque Dio mi ha dato shta forza e io condinuerò ad aiudare la povera gende”. Ora, il dono di Bette Davis è essere la più grande attrice di tutti i tempi. Bette Davis non recita. Bette Davis è. Io sono sicura che  la migliore interprete dei nostri giorni – sì, Meryl, parlo con te – da ragazzina aveva nella cameretta il poster di questa gigantessa del grande schermo.
Potrei citarvi tantissimi episodi che testimoniano che figa totale sia Bettina, ma a qualcosa serviranno pure Wikipedia e Imdb. Vi basti sapere che Ava Gardner, che è tra le 5 più belle creature che abbiano popolato la Terra, una volta disse:
“I’ll never forget seeing Bette Davis at the Hilton in Madrid. I went up to her and said, “Miss Davis, I’m Ava Gardner and I’m a great fan of yours." And do you know, she behaved exactly as I wanted her to behave. "Of course you are, my dear," she said. "Of course you are." And she swept on. Now that’s a star.”
Passiamo al capolavoro. Baby Jane Hudson è un piccolo prodigio che gira per teatri facendo spettacoli col padre, accompagnata dalla madre e dalla sorellina Blanche. Come tutte le baby star, è una grandissima stronza, ma i fiji so piezz ‘e cor’, i bambini non si toccano e via discorrendo, quindi fa il porco comodo che le pare e tratta malissimo tutti, Blanche inclusa. Avanti veloce, le due sorelle crescono confermando quanto mi ha sempre detto nonna Adele, ossia “brutto in fasce, bello in piazza”. Blanche diventa una diva, Jane stenta a lavorare. Una sera, rientrando da una festa, mentre Blanche scende dall’auto per aprire il cancello del villone, Jane, ubriaca e preda dell’invidia, la mette sotto. Pessima idea, perché quella sopravvive, diventa invalida e l’ex Shirley Temple se la deve accollare.
Ancora avanti veloce, le due sono vecchie zitelle e vivono sempre insieme. Jane si occupa tuttora di Blanche, e diciamo che non manca di farglielo notare. Anzi, continua a essere così stronza che l’altra – di nascosto – decide di provare a vendere il villone, e utilizzare i soldi per trasferirsi con la colf in un appartamento e mettere la sua carceriera in un sanatorio.
Ovviamente Jane scopre la manovra. E inizia un crescendo di perfidia così sublime che raramente vedrete altrove. Una violenza psicologica e fisica, che a confronto il taglierino che da piccoli mio fratello mi conficcò nel dito sembra una burla tra bimbetti. Una cattiveria che è comunque nulla rispetto a quella che si respirava a telecamere spente. Perché Bette Davis e Joan Crawford si odiavano. Ma di un odio che farebbe la gioia di qualsiasi press agent: la Crawford era all’epoca la vedova del CEO della Pepsi, così la Davis fece mettere sul set un distributore di Coca Cola; nelle scene in cui Bette doveva trascinare Joan, quest’ultima si riempiva le tasche di sassi; nella sequenza in cui Jane picchia selvaggiamente Blanche, ci va giù così pesante che la Crawford è finita in ospedale. 
La Davis ricevette una nomination per questa interpretazione, e ti credo: ogni volta che Baby Jane si finge sua sorella (per rubarle soldi, comprare alcolici o semplicemente sfotterla), dà praticamente lezioni di recitazione all’universo intero; avrebbe potuto vincere il suo terzo Oscar, all’epoca nessun attore ci era ancora riuscito. Quella rosicona della Crawford, indispettita dalla cosa, chiamò tutte le altre nominate offrendosi di ritirare eventualmente il premio al loro posto, cosa che in effetti accadde. Ve l’ho detto, due iene. E non mi metto a elencare tutti gli insulti che si sono lanciate a distanza tramite i più disparati media, ché sennò famo notte, ma meriterebbero di essere rappresentati sul grande schermo anche loro.
Ora, io so che molti di voi a questo punto staranno storcendo il naso, perché “Ah, ma questo non è un horror, “Che fine ha fatto Baby Jane” è un thriller!”. Cazzate, perché come ha già spiegato qui l’altra metà del blog, esiste forse un orrore più spaventoso che invecchiare?

martedì 27 novembre 2012

Dolcemente complicate una sega. Eva contro Eva.


Caro Ruggeri, te lo svelo io, Quello che le donne non dicono: che “Fai come vuoi” sta per “Sei morto”; che “Sono ingrassata” non è un’affermazione: è una domanda, e prevede come uniche risposte accettabili “Ma no amore, sei bellissima come sempre / non ti ho mai vista più magra di così / Kate Moss si masturba guardando tue foto in lingerie”; e, ovviamente, che “Sei la donna che ammiro di più al mondo” equivale alla minaccia “Ti ruberò carriera, uomo, amici e pure i vestiti. Bitch”.
Premettiamo: le donne fanno le stronze anche con gli uomini, eh.
Solo che dopo un po' chiunque si stanca di fare il bullo col ciccione che soffre d’asma o giocare a Fifa col nonno miope. Ecco, quando una donna sente il bisogno di confrontarsi con qualcuno alla propria altezza, ciò che ne deriva è "Eva contro Eva".

Forse l’unico caso nella storia del cinema in cui il titolo italiano è migliore dell’originale “All about Eve”. Perché il capolavoro in questione proprio di questo tratta: dello scontro tra due primedonne, due Eve per l’appunto. 

Come dite? Di “Eve” al plurale non c’è traccia nello Zingarelli? Bravi, avete colto il punto. Perché la storia dei due galli nel pollaio è niente: provate a mettere due api regine in un alveare, e poi forse avrete un’idea di cosa significhino i termini “competizione”, “primeggiare” e “spacco bottilia, ammazzo familia”. Due donne, se appena appena dotate di più personalità di una lattuga scondita, possono coesistere nello stesso ambiente solo se mai.

Margo in "Spacco bottilia, ammazzo familia!"
Questa, in sintesi, la morale di “Eva contro Eva”. Morale didascalica per le donne, incomprensibile per gli uomini. Che di fronte a questo cult si dividono in due categorie: quelli che si addormentano dopo tre quarti d’ora di sbadigli e gli esperti di cinema che “uh, Mankiewicz, uh, Bette Davis, uh, i dialoghi” ma poi continuano a stupirsi se la loro ragazza, in presenza di altre donne, alza la gambetta tipo cane e si mette a segnare il territorio. 

Ma torniamo alla trama. C’è Margo Channing che, esattamente come la Bette che la interpreta, è in sintesi una dea: drama queen dentro e fuori dal teatro, venerata dal pubblico e pure dal privato, vive un’esistenza praticamente perfetta. Troppo, per non far gola alla prima sciacquetta che passa. E la prima a passare è appunto Eva: giovane senza arte né parte, che riesce a intrufolarsi in un lampo nella vita di Margo. Come? Usando come piede di porco l’unico punto debole di una donna: l’adulazione. E, con uno sguardo sottomesso qui e un complimento esagerato là, Eva passa dritta dritta dal ruolo di groupie a quello di coinquilina tuttofare del suo idolo. E in effetti, al suo idolo, le farà di tutto: dal rubarle la migliore amica al tentare di sedurle l’uomo. Tutto per ottenere la cosa più preziosa: il ruolo di primadonna sul palcoscenico. 

Se Eva riuscirà nel suo intento, o già lo sapete o non sarò certo io a spifferarvelo. Il punto è un altro: se niente come l’adulazione può ingannare una donna, è anche vero che nulla può gettarla nella disperazione più della giovinezza. Quella altrui, naturalmente. Si, perché alla fine l’unica superiorità di Eva consiste nell’avere qualcosa in meno: 20 anni, per la precisione. Stringi stringi, è questo che rode a Margo: di uomini se ne trovano tanti, di amiche false pure, e alla fine ci sono abbastanza teatri per tutte, a questo mondo. Ma la giovinezza. Quella è proprio una cosa che se tu ce l’hai e io no…meglio che cambi marciapiede quando mi incontri. E sapete qual è la cosa peggiore? Che poi è anche il finale del film, e pace per lo spoiler? Che non importa quanto in fiore siate: ci sarà sempre – SEMPRE – qualcuna più giovane di cui diffidare.


martedì 20 novembre 2012

Il mio grasso, grasso matrimonio grasso. The wedding party.


Diceva un grande pensatore dei nostri tempi che “Noi le tette le dobbiamo pensare come l’utopia de Galeano. Che diceva il grande Edoardo Galeano? Diceva che l’utopia è come l’orizzonte. Tu fai due passi avanti, quello s’allontana de due passi. Tu fai tre passi e quello s’allontana di tre passi. E allora, dice, a che cosa serve l’utopia? Serve a camminare. E allora, a che cosa servono le tette nel nostro film? A sbijetta’, a incassa’, a fa’ i soldi.” Ecco. Nei chick flick, le tette sono i protagonisti maschili boni. Immaginate in un film corale, dove c’è più di una protagonista e – ça va sans dire – più di un leading man.
Non ci siamo, The wedding party, proprio non ci siamo. Abbiamo 3 eroine, più l’amica cicciona che si sposa, quindi 4 maschi, e manco uno che ci fa bagnare le mutandine? Ma hanno fatto il casting coi punti della Coop?
“Sì, guardi, ho completato due tessere, che mi date?”
“Se aggiunge 147,23 euro ve ne diamo uno vagamente decente, uno tendente al pingue e uno che passava lì per caso”.
Tra l’altro, per farvi capire, quello vagamente decente è James Marsden, che se voi avete visto uno dei film delle saga degli X-Men, già conoscete: è Ciclope, il fidanzato di Jean Grey, che lei quasi tradisce con Wolverine/Hugh Jackman. Quasi. Significa che non lo fa. Sì, amiche, pure io credo che a Hollywood abbiano seri problemi sessuali.
Quindi, eliminata la questione maschione, che ci rimane? Bah, dico io. Ben poco. Anche perché questo film lo avevano presentato come la (ennesima) scoperta indie del Sundance (non vorrei aprire polemiche, ma dire che il Sundance è il paradigma della cinematografia indie è come dire che McDonald’s è altissima gastronomia). Secondo loro avrebbe dovuto scandalizzarci vedere sullo schermo 3 circatrentenni che sniffano coca e si autoinducono il vomito. Sai che roba, basta andare in Corso Como (popolare zona delle notti milanesi, ndr) durante il week-end.
Poi vabbè, le protagoniste sono 3 belle ragazze, e tutte e tre riescono a coprire l’intero arco dell’identificazione tricologica (in sostanza sono una bionda, una mora e una rossa, quindi ogni donna può ritrovarci dentro la sua chioma). Ma non bastano dei bei capelli per fare un chick flick. Sennò guarderemmo tutte Barbie Raperonzolo, cari i miei sceneggiatori.
Sono solo due le cose che permettono di vedere questo film senza vomitare come le protagoniste:
-il momento in cui Lizzy Caplan enuncia la sua teoria dei pompini. Punto di vista interessante, anche se non lo condivido: meglio sempre da 10. Una volta che hai indotto una dipendenza pari a quella dall’eroina, puoi chiedere qualunque cosa.
-il vestito di Kirsten Dunst. Meraviglioso. Il classico vestito perfetto per bionde algide che si intrufolano in appartamenti di vicini uxoricidi; o che si barricano in casa sotto la minaccia di migliaia di volatili; o incallite cleptomani col terrore dei temporali e del contatto fisico maschile (se non capite manco adesso vengo là e vi meno).
Ora voi vi starete chiedendo: “Ma di che cazzo parla però questo film?”.
E infatti: Kirsten Dunst, Isla Fisher, Lizzy Caplan e un’altra ragazza cicciona sono amiche dalle superiori. Un bel giorno, la cicciona annuncia il suo matrimonio, provocando rigurgiti di bile nelle “amiche” che, pur essendo belle e magre, sono dei disastri ambulanti sul piano delle relazioni. Quindi si radunano tutte per l’addio al nubilato precedente il giorno del matrimonio (mossa furba: niente di meglio che fare nottata per affascinare il proprio sposo sull’altare con rigurgiti al retrogusto di vomito), e noi seguiamo le tre troiette nella nottatona e nella giornatona della festa. Nottatona in cui, per colpa loro, al povero vestito da sposa capita di tutto, dalle macchie di sangue, a quelle di sperma, agli strappi sul corpetto. In pratica, “Una notte da leoni” in salsa di estrogeni. Con la differenza che “Una notte da leoni”, oltre ad essere più divertente, ha dentro Bradley Cooper. E lui, a occhio e croce, è una bella quarta abbondante.

lunedì 19 novembre 2012

Ma è un gatto con la pipa! Shining.


C’è questo spot, che io considero un capolavoro per vari motivi: primo fra tutti, per il fatto che nonostante lo abbia visto una cinquantina di volte riesce ancora a farmi ridere come il dr. Hibbert dei Simpson. Si tratta dello spot per un festival di cinema indipendente di Buenos Aires, e insomma guardatevelo:


Ecco io, quando si parla di Shining, mi sento esattamente così: come quello che guarda il gatto, poi guarda gli altri in lacrime, poi riguarda il gatto, e non capisce se a essere coglione è lui o il resto del mondo.
Ora, siccome già mi vedo orde di studenti del DAMS che organizzano pulmini Bologna-Milano per venire a picchiarmi – abbandonando così le loro abituali occupazioni quali fumare, pogare all’Estragon e chiedere spicci in via Zamboni - cercherò di spiegare meglio il mio punto di vista.
A me Shining, nel complesso, non è che dispiaccia. Ovviamente ha una regia spettacolare, interpreti pazzeschi, trama interessante. Insomma, come film è un gran bel film. È come horror, che mi lascia annichilita. Voglio dire: ma l’horror, qua, dove lo vedete? Non è che basta mostrare un po’ di sangue – ok, un bel po’ di sangue – per rientrare nella categoria, eh. Si, l’ascensore si apre e riversa litri di vernice rossa nel corridoio…e quindi?
“Eh, ma - dicono - non è tanto quello che si vede, è l’atmosfera a essere super inquietante ecc. ecc.”. E io, di nuovo, mi ritrovo a fissare un gatto con la pipa.
Questa atmosfera inquietante, in quali fattori dovrei trovarla, di preciso? Analizziamo.

   
Inquietudine da Jack Torrence&Co.
 

Seriamente: vi stupisce il fatto che Jack vada fuori di testa? Abbiamo un marito scrittore fallito, una moglie succube e un figlio che parla col proprio indice: e vogliamo dare la colpa al cimitero indiano, se le cose vanno a finire male?
No, la vostra paura non può chiaramente derivare da un colpo di scena. Anche perché oh, non dimentichiamoci la faccenda dell’ultimo guardiano, spoilerata prima ancora che la famiglia tolga i bagagli dall’auto: nella prima mezzora, non solo sappiamo già di trovarci di fronte a un terzetto psicologicamente instabile, ma sappiamo anche che in quell’albergo si finisce per massacrare i propri consanguinei. Quindi…tecnicamente…durante il film non facciamo altro che aspettare qualcosa che di sicuro avverrà? Uhm. Si: son cose davvero inquietanti, le certezze.

Inquientudine da gemelline

Si, sono morte. Si, sono apparizioni paranormali. Si, vogliono che Danny vada a giocare con loro per sempre. Ma che diamine, sono solo due bambine che si tengono per mano! Cosa c’è che vi sconvolge tanto, premesso che siamo all’interno di un albergo diabolico e che sappiamo che il marmocchio ha una vista particolarmente ricettiva per queste cose? È una semplice citazione, per altro di una delle fotografe più amate dai soliti studenti del DAMS. E, soprattutto: queste due non fanno un cazzo. Si limitano ad apparire. Non urlano, non cercano di uccidere, non devastano, non fanno niente che non sia starsene in mezzo al corridoio. Beh, scusate, ma io da un fantasma esigo, in assenza di un aspetto terrificante, quanto meno delle azioni che non ti aspetteresti anche da Gandhi.


Inquietudine da location
Vabbè, qua alzo le mani. Magari dove vivete voi l’idea di trascorrere mesi su una montagna innevata, con una dispensa stracolma di ogni ben di dio, in santa pace e senza nessuno che vi fracassi le palle dalla mattina alla sera può sembrare qualcosa di poco auspicabile. Viceversa, vivendo a Milano, io mi imbatto quotidianamente in inquinamento atmosferico, inquinamento acustico e inquinamento antropologico, a livelli tali che alle 9.30 arrivo al lavoro già con l’ascia in mano. Altro che Jack e il suo “Wendy I’m homeee!”. Per cui, questa inquietudine da claustrofobia io non posso proprio capirla: a me quel posto pare molto simile al paradiso. Al paradiso nella giornata di blocco del traffico, che è il massimo che posso dire

Però ecco, alla fine di tutto, devo ammettere una cosa: forse la mia visione di Shining è un po’ influenzata da un dettaglio. 


Che Danny si ritrova una faccetta da cazzo che ti mette voglia di massacrarlo nei primi dieci minuti di film. Quel marmocchio saccente, psicolabile e luccicante.