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giovedì 18 aprile 2013

All you can kill. Dead Sushi


Il tutto è più della somma delle parti. Lo dice la psicologia della Gestalt, lo dicono piatti come le lasagne. E lo dice questo capolavoro di cui oggi vi parlo. Perché tutti i singoli elementi di puro genio che lo compongono, insieme danno vita al genio universale. Un film che parla di sushi assassino. Mi viene da piangere per la gioia, al pensiero di quanto in là può spingersi il mirabile intelletto umano.
Ma torniamo al genio. Che è evidente fin dalla trama. La protagonista, Keiko, è la figlia di un sushi chef stronzissimo. In pratica le dice che, essendo donna, contamina col suo odore il sushi, e quindi quello che cucina fa cagare. Lei scappa, e trova lavoro come cameriera in un albergo-ristorante. Nei pressi dell’albergo gira un barbone, che è un ex-ricercatore di una grossa casa farmaceutica. In sostanza lui ha inventato un siero capace di riportare in vita gli animali. L’unico effetto collaterale è che le bestioline diventano esseri assetati di morte. Quando nell’hotel capitano i capoccia della casa farmaceutica, il barbone decide di vendicarsi, e inietta il siero nel sushi. Da qui in poi è una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza, col sushi violentissimo da una parte e gli umani dall’altra.
Fossi in voi, interromperei la lettura qui (scherzo) e mi cercherei un bel link per lo streaming (lo trovate sottotitolato in inglese). Ma siccome so che state ancora leggendo, vi snocciolerò le perle che il regista, Noboru Iguchi, ha lanciato a piene mani nella pellicola.
Come, tanto per iniziare, il bacio alla giapponese. Lo so, voi conoscerete quello eschimese, che si dà con le ciglia, o quello francese, che vabbè lo sanno anche i muri. Ma quello giapponese, che i due amanti si scambiano passandosi un rosso d’uovo crudo da una bocca all’altra, lo avevate mai visto?
Poi c’è la coltellofobia, psicosi di cui soffre l’ex-chef dell’albergo poi diventato giardiniere.
C’è Keiko che si allena a preparare il sushi insieme al padre indossando delle catene ai polsi, roba che, se siete nati negli anni ’80, avete visto fare solo a Mimì Ayuhara durante gli allenamenti di pallavolo.
C’è il sushi nasale, e la dinamica è troppo complessa da spiegare, ma sappiate che a un certo punto del film, voi vedrete un nigiri che, al posto della fettina di tonno, ha un naso di uomo.
C’è l’evoluzione della pioggia dorata, ossia la pioggia insanguinata, che secondo me R Kelly sta già in fibrillazione all’idea di provarla.
C’è il barbone che, spinto dalla fame di vendetta, ingurgita del sushi infetto per rinascere sotto forma di tonno gigante, che per tagliarlo più che un grissino serve una katana di Hattori Hanzo.
Non dimentichiamo l’arma del futuro, il sushi-nunchaku con cui la protagonista combatte in uno degli scontri finali.
Ci sono ovviamente i vari pezzi di sushi killer, che azzannano, entrano nei corpi umani passando dalla patata, si accoppiano tra loro selvaggiamente, e crescono a dismisura fino a dar vita a una sorta di astronave-uova di salmone dotata di cannoni funzionanti.
Ma la parte del leone spetta a lui, la star, il nigiri-frittata. Lui che è come noi, vittima di bullismo da parte dei sushi-pesce che lo considerano un sushi di serie B (bullismo verso il sushi. Vi rendete conto?).
Lui che quando sente l’ex-chef fare una puzzetta, finge di svenire per l’odore. Lui che canta, e pure bene: una pallocca di riso con un pezzo di frittata sopra che CANTA, Dio mio. E lui che, prima di compiere l’estremo sacrificio per salvare Keiko, la bacia sulla bocca in un momento denso d’emozione.
Leonardo Di Caprio, scansète.

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