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martedì 30 ottobre 2012

Non si esce vivi dagli anni ’90. Nè da nessun altro decennio. American Horror Story.


Vi racconterò una storia, miei giovani lettori.
Anni e anni or sono, ci fu un tempo - una sorta di Età dell’Oro - in cui la gente non faceva/ascoltava/mangiava/guardava cose solo perché farlo era cool. Bensì, mirabile dictu, semplicemente perché amava farle. E viceversa: in questo tempo remoto, nessuno si asteneva dal fare/ascoltare/mangiare/guardare qualcosa solo perché quel qualcosa era troppo mainstream. No: in quell’epoca favolosa, le cose ti piacevano o ti facevano cagare per davvero. 

Questo tempo incantato, amici miei, è noto ai posteri come “Gli Anni ’90”.
E nel pieno degli Anni ’90, io ero bimbetta che giocava con le Barbie e studiava sul sussidiario. Lynch, non sapevo nemmeno chi fosse. (Giustamente, che diamine. Già ero precocemente rovinata dalla filmografia di Dario Argento, a tutto c’è un limite.) Né avevo la più pallida idea del fatto che un giorno sarei stata considerata intelligente, se avessi apprezzato (o anche solo capito)  i suoi film. Quello che sapevo, negli anni ’90, era che quando dalla TV partiva quella musichetta inquietante, era ora di scappare più lontano possibile e cercare di dimenticarla in fretta. Perché ero una bambina, una bambina genuina  - tonta - come solo quelle degli anni ’90 sapevano essere. E non avevo alcuna remora a manifestare disgusto per qualcosa che effettivamente mi faceva cagare sotto.
Ecco, ai trentenni intellettuali dell’ultim’ora, che oggi dichiarano di essere cresciuti guardando Twin Peaks, io vorrei chiedere questo: di non dire stronzate. Voi, Twin Peaks ve lo siete guardato a 20 anni scaricato da Emule, proprio come me. E allora, e solo allora, avete potuto apprezzarlo. Ma negli anni ’90, quando bastava accendere la TV per trovarsi faccia a faccia con Bob, voi correvate tra le braccia della mamma piangendo, altro che “surrealismo Lynchiano”. 

Tuttavia, e ora arrivo al punto, posso capire il vostro disagio: trattasi della classica sindrome “Oddio-potevo-vivere-un-pezzo-di-storia-e-ho-sprecato-l’occasione”. Dev’essere così, che si sentono i nostri fratelli maggiori mai andati a un live dei Nirvana.
Ma ecco la buona notizia: oggi, coetanei miei, possiamo recuperare. Oggi, da adulti, possiamo goderci senza traumi e con tempismo il NUOVO Twin Peaks. Alias, American Horror Story.

E se finora l’ho tirata tanto per le lunghe non è perché oggi sono particolarmente acida – anche – ma è stato per farvi capire l’importanza storica di questa serie. E per farvi capire che no, non potete proprio perdervela. Accendete subito il vostro Mac, che lo so che siete gentaglia da Apple, e via con lo streaming la visione assolutamente legale del suddetto telefilm. 

Per chi non lo stesse ancora guardando – muovetevi! – spenderò due parole sulla trama.
Coppia in crisi (aborto spontaneo di lei, tradimento di lui) tenta la via del “Casa nuova, vita nuova”. E si trasferisce in questa mega villa, con figlia adolescente al seguito. Dopo pochissimo però si inizia a sentire puzza di zolfo: più o meno da quando appare in scena l’inquietante vicina – una Jessica Lange a dir poco sublime – e la di lei figlia, afflitta da sindrome di Down. Viene così fuori che quella villa è più letale della videocassetta di The Ring, e che da decenni chiunque ci abbia vissuto ha fatto una fine a dir poco spiacevole.
Insomma: nel giro di qualche settimana non si capisce più nemmeno chi è essere umano, fantasma o allucinazione. Non posso dire altro. 
Anzi, solo un’ultima cosa: se nessuna delle mie argomentazioni vi ha scosso finora, ecco, vorrei tentare due mosse sleali. Queste:






venerdì 26 ottobre 2012

“Sei vergine?” “Sì, de cuore.” Mai stata baciata.



Nel corso della mia vita, ho visto Lady Oscar un’infinità di volte. Dopo un po’, un interrogativo ha iniziato a rosicchiarmi il cervello: ma Oscar, a che età ha perso la verginità? (secondo i miei calcoli a 33 anni, qualora anche voi vi foste chiesti la stessa cosa.) Un interrogativo simile mi ha turbato la prima volta che ho visto “Mai stata baciata”. Perché Josie, ossia Drew Barrymore, 25 anni nel film, a un certo punto dice di “non aver mai veramente baciato un uomo”.
Il perché è prestissimo detto: Josie è una sfigata. Ma sfigata ai livelli cosmici che solo in un chick flick si possono raggiungere. È sfigata alle superiori, quando i compagni di classe la chiamano Josie Buzzicozza (e non credo sia necessario spiegarvi l’etimo del soprannome). È sfigata da adulta, quando si trova a lavorare per un giornale come redattrice invece che come giornalista, come lei ardentemente vorrebbe.
Ma siccome una botta di culo nella vita capita a tutti prima o poi, il suo editore, la cui umanità fa sembrare la rivoluzione industriale inglese l’età d’oro dei diritti civili, le affida un servizio come studentessa infiltrata in un liceo.
E qui Josie avrebbe la sua possibilità di riscatto: che diamine, al liceo 10 anni dopo, con la consapevolezza e – si spera – il senso estetico di una giovane donna. Col cazzo. Fa subito amicizia coi secchioni, e i fighi (tra cui James Franco e Jessica Alba) non la cagano di striscio. Peggio ancora, non riesce a trovare uno straccio di storia interessante. E qui interviene il deus ex machina. Anzi, dei.
Uno è Gus, John C. Reilly, il capo, che le piazza microfoni e microcamera addosso per cercare con lei la “storia”; l’altro, è Rob, David Arquette, suo fratello, benedetto dal Signore con la capacità di diventare istantaneamente popolare ovunque vada, che si finge studente e la aiuta a diventare la stella del liceo.
Bene, direte voi. Manco pegnénte, dico io. Perché ovviamente a questo punto Josie sputtana tutto e rischia di perdere amore, lavoro e affetti in un crescendo che culmina con una bella citazione di “Carrie - lo sguardo di Satana” (non succede, ovvio. Quel figo di Michael Vartan che sta lì a fare sennò?). Ma il punto non è questo. E nemmeno un eventuale discorso sulla popolarità che rende buono chi non ce l’ha, che quando diventi figo è un attimo che dimentichi la merda mangiata per arrivare fin lì e via dicendo.
No. I punti per cui sono ossessionata dal film sono 3.
1)  “Tu scuoti il mio mondo”. Questo si sente dire Josie dal suo accompagnatore al prom. Niente “ti amo”, niente “mi completi”, ma un “sei eccezionale sotto talmente tanti e nuovi punti di vista che mi lasci completamente frastornato, come la California in balìa della faglia di Sant’Andrea.
2)    Te stessa a 16 anni. La nemica più acerrima, crudele e duratura che incontrerai mai. Non importa i traguardi che raggiungerai nella vita. Tu, dentro, sarai sempre quello che eri a 16 anni. Grassa, magra, brufolosa, timida, maschiaccio. Un figo ti chiede di uscire? Penserà di portare fuori la 30enne affascinante e brillante che sei, ma in realtà sta uscendo con quell’ammasso di insicurezze e difetti che non sa spiegarsi come sia possibile che lui voglia farsi vedere in giro insieme. La nostra esistenza non la passiamo a cercare di migliorarci, ma a tentare di impressionare e mettere a tacere quell’adolescente concepita all’inferno che ci alberga dentro.
3)   Josie e Rob. Soprattutto questo. Perché siamo io e mio fratello. Una delle mie più care amiche tempo fa mi ha detto “Le foto di tuo fratello sono uno dei motivi per cui guardare il tuo facebook”. E lei è una delle più care. Ho smesso di contare le volte in cui mi hanno detto “Ah, ma lui è tuo fratello? Che figo, ma è impegnato?”. E gli inviti, e gli incontri, e la rava, e la fava. Rob e Josie, uguali. Ma non solo in quello. Perché lui la sprona, le è vicino. Fa quello che un fratello come vi auguro di avere fa, che sia trasportare le casse d’acqua perché a voi pesano, abbracciarvi forte mentre vi dilaniate l’anima sul divano, o dividere con voi gli imbarazzanti commenti di vostra madre su facebook. Quando è nato, io avevo 4 anni. Avrei potuto ucciderlo facilmente, era ipervulnerabile, e non mi avrebbero messo neppure in riformatorio. Meglio di un deputato del PdL. Ma quella sera in tv davano Lady Oscar. E di questo, Fininvest, io ti ringrazio.

lunedì 22 ottobre 2012

Un Dawson è per sempre. Don't Trust The Bitch in Apartment 23.

Rossella - che Dio benedica lei, ‪Margaret Mitchell‬ e Vivien Leigh - pronunciando la celebre massima "Domani è un altro giorno", non si è limitata ad assicurarsi la vetta del Graziealcazzismo.
Ma ha lanciato all'intero mondo femminile un messaggio di speranza e fiducia nel futuro. Fiducia, nel mio caso, assolutamente ricompensata. Voglio dire: non ho fatto in tempo a concludere che le donne a NY sono o brutte, imbecilli e ricche (Sex and The City) o brutte, imbecilli e povere (Girls), che voilà: arriva in TV "Don't Trust The Bitch in Apartment 23". Che, ammetterete, già solo dal titolo batte ogni altra serie utero-centrica mai conosciuta.
E soprattutto, ci fa scoprire due protagoniste belle, intelligenti e con le pezze al culo come noi.

Plot: June, ingenuotta provinciale e bionda, approda a NY dritta nelle grinfie della coinquilina Chloe - cinica, egoista, e naturalmente mora. Ovvero, la bitch dell'appartamento 23.
Le due iniziano una turbolenta convivenza che renderà l'una meno idiota e l'altra meno stronza. That's it.
MA, signore e signori, il tocco di genio è un altro: il miglior amico di Chloe è niente popò di meno che James Van Der Beek, nel ruolo di se stesso. Se stesso fino a un certo punto, visto che - come probabilmente avviene anche nella realtà - James è universalmente conosciuto e riconosciuto come Dawson. Cosa che dà vita a una serie di gag esilaranti (grazie, sceneggiatrice dal nome impronunciabile. Tu sì che te la guadagni la pagnotta.). Qualche esempio? Il tenero James - uomo dall'autoironia inversamente proporzionale alla virilità di Dawson - viene chiamato a tenere un seminario di fronte ad aspiranti attori. Con questo risultato:


E poi via, a cori di "I don't wanna wait…" ogni volta che incontra una fan - fan che non esita a portarsi a letto, nonostante gli venga spesso richiesto di indossare camicie di flanella Dawson's style durante l'amplesso. E di recitare quei monologhi pieni di spessore del calibro di:


Insomma, si ride parecchio con James. Mi verrebbe quasi da dire che è lui il vero protagonista della serie, se non fosse che Chloe è esattamente il tipo di donna a cui chiederei la mano. Se fossi un uomo stupido.
Bellissima, matta come un cavallo, abbastanza furba da riuscire a vivere a NY solo grazie a truffe ed espedienti vari. Per capirci - e so che con questo paragone ci capiamo: Chloe è la Holly Golightly del 2000. 

Quella che tutte vorremmo essere, ma nessuna vorrebbe avere come coinquilina. Difatti la povera June viene derubata, ingannata e insultata. E completamente ignorata da noi spettatori, come è deciso dallo script che sia. Finché, naturalmente, Chloe realizza che in realtà le vuole un sacco di bene, a quella biondina tutta scema.
 
Si, avete capito bene: in pratica, se Chloe è la nuova Holly, June è la nuova "Gattooo!".

lunedì 15 ottobre 2012

Hasta la muerte siempre. Juan of the dead.


Prendete L’Avana. Ora riempitela di mostri. No, non intendo quelli che vanno a fare turismo sessuale. Sto parlando di zombi.
Adesso aggiungete un giovane Franco Battiato, un erotomane figlio dell’amore tra Ugo Conti e Lillo di Lillo & Greg, un Enrique Iglesias un po’ meno tamarro, un travestito e una specie di gigantesco buttafuori che sviene alla vista del sangue. Questa è la banda di Juan de los muertos, che per pochi soldi vi libera dei vostri cari. Vostri cari zombi, si intende.
Prima di parlarvi del film una premessa: se volete farmi passare una bella serata, portatemi al cinema; se volete che ci vediamo una seconda volta, portatemi a vedere un horror; ma se volete che la serata finisca con me che vi preparo un caffè al mattino, portatemi a vedere qualsiasi cosa abbia degli zombi dentro. Insomma, se ci sono dei morti viventi, per me un bel 7 è il voto da cui partire.
Quando ho finito di vedere “Juan of the dead”, ero così entusiasta che avrei voluto prendere il regista e sceneggiatore, Alejandro Brugués, e fare all’amore con lui. Perché qui parliamo di genio. Perché se pensi un film dove metti gli zombi a L’Avana e fai dire a governo e media che si tratta di dissidenti pagati dagli americani, allora sei un cazzo di genio. E basta.
La trama: i morti viventi si diffondono a Cuba. Juan e i suoi amici, abituati a campare d'espedienti, annusano la possibilità di far soldi mettendo su una piccola impresa di pulizia-morti. Tentando di non morire in corso d'opera.  
Fossi in voi lo starei già scaricando, ma voglio buttarvi là qualche altro osso.

1)  Il protagonista, Juan: già in quanto eroe di un horror deve essere maschio alfa per proteggere il gruppo; ma lui è pure latino. In pratica alfa al quadrato. Uno che mette al primo posto per la sopravvivenza le scorte di rum. Io lo amo.
2)   China, ossia il travestito. Sue alcune delle battute migliori, come quella al minuto 50, di fronte a un capo militare: “Quando Dio ha distribuito il cazzo, lo ha dato tutto a lui”. Sue alcune delle uccisioni più divertenti in coppia col buttafuori svenevole (che combatte bendato. Capite, BENDATO). E sua la zombizzazione migliore (sì, spoiler. Tanto lo sapete che non possono sopravvivere tutti in un horror. E China viene sostituita da Camila, figlia di Juan, che per i 92 minuti di film ha il ruolo di quella che fa cadere l’autostima delle spettatrici).
3)  Fotografia, effetti speciali e colonna sonora. La prima, bellissima, virata verso un caldo giallo malato e sudaticcio; i secondi, spettacolari, con ammiccamenti a Matrix ed echi tarantiniani; la terza, che sembra uscita da un poliziesco anni’70 e che culmina con “My way” cantata da Sid Vicious sui titoli di coda, realizzati come una graphic novel e con una chicca finale che giuro volevo piangere di gioia.
4) Il titolo della pellicola. Un hommage al Maestro, una captatio benevolentiae che non serve, ma aiuta.
5)  La brillante satira politica. Sia attraverso le battute dei personaggi, sia attraverso varie sequenze visive, con cartelloni che inneggiano alla rivoluzione che crollano e altre amenità. Come ho già detto qui, nella visione illuminata del Maestro, parlare di zombi significa parlare della nostra società, criticandola ferocemente. E Brugués ha capito la lezione.
6)  Fa ridere. Tanto.
7)  La perla. La morte al minuto 82. Come ben sapete, per uccidere gli zombi bisogna mirare al “cervello”. Diciamo solo che ci sono diverse strade per arrivarci. E che qui hanno scelto la più lunga.

Bene, io ho finito. E adesso scusatemi, ma Alejandro reclama il suo caffè.

martedì 9 ottobre 2012

Non sei tu, è Carrie. Girls.



In Italia sbarca solo questa settimana - mercoledì, su MTV. Tuttavia, a meno che non siate uomini, di Girls avrete già sentito e letto di tutto.
Breve sintesi? Serie tv al femminile, definita dai più l'anti-Sex and the City. Scritta, diretta e interpretata da Lena Dunham. E su quest'ultimo punto poi ci torniamo.

Ora. Quando una serie mi viene presentata come "l'anti-Sex and the City", io per logica mi aspetto una bella serie.
Una serie che NON abbia per protagoniste quattro donne che farebbero diventare ogni lesbica etero e ogni uomo gay.
E una serie dove il sesso libertino NON sia urlato al mondo come unica prova tangibile dell'indipendenza femminile.
Ecco, dopo aver guardato la prima stagione di Girls, mi rendo conto del mio errore.
Quello che intendevano quei trafiletti apparsi di recente su ogni rivista femminile era, evidentemente: la protagonista di Girls si veste come si vestirebbe Carrie Bradshow se improvvisamente perdesse la vista. E ha un peso corporeo pari a quello di Samantha, Charlotte e Miranda messe insieme.
Pertanto, si, in tal senso mi trovo d'accordo: Girls è assolutamente agli antipodi rispetto a Sex and the City. E lo fa rimpiangere anche a chi, come me, Sex and the City non l'ha mai sopportato.

Questa nuova e indispensabile serie ci insegna un'importante lezione: non c'è mai limite al peggio, quando si parla di donne a New York. Non capisco se sia la grande mela a ridurre ogni essere dotato di vagina in un inutile e fastidioso insieme di blablabla, o se è solo quel tipo di esemplari femminili a trasferirsi lì. Fatto sta che niente, se cercate un'amica, una fidanzata, o anche solo una compagna di scopate, state lontani da New York.
O a quanto pare verrete travolti da drammi esistenziali/sessuali/lavorativi/sentimentali, con cui donne dalla personalità pari a quella della lattuga scondita tentano di smuovere un po' le acque delle loro vite stagnanti.

Poi, una nota a parte la merita la brillante mente che ha dato la luce a Girls. Che si, ok: ‘sta Lena Dunham avrà pure 26 anni, tanto di cappello. Ma il suo vero talento è stato quello di convincere la gente che la sua serie meritava una chance. Su quello, chapeau: è una venditrice nata, se ha convinto qualcuno a produrre Girls potrebbe riuscire anche a trasformarmi in testimone di Geova bussando alla mia porta di domenica mattina.
Quello che io mi chiedo è: dopo un simile successo, c’era davvero bisogno che questa donna ci mostrasse il suo topless in circa un terzo delle puntate? No, perché vi avviso: la Dunham è anche la protagonista di Girls, e ricopre l’ambito ruolo di personaggio più odioso nonché più disinibito. Una combo che, fidatevi, riscontrata in una donna che non sia Megan Fox può avere risultati agghiaccianti sulla vostra vita sessuale. Ma Lena è sveglia, dicono. Per cui, chi lo sa: magari Girls altro non è che un lunghissimo viral per i Durex ritardanti.