La
prima volta che ho visto “Love actually”, non ero nelle condizioni ideali. Il
titolo fa abbastanza intuire l’argomento, e che un film simile tu debba vederlo
con le amiche, o con un fidanzato dotato di un grave senso di colpa al momento
dell’uscita nelle sale. Dicevo, la prima volta che l’ho visto, mi trovavo
temporaneamente a Londra, con il di-allora-fidanzatino Molto Oltre Manica, così
come le amiche. Andai al cinema da sola. E mi piacque. Oh, se mi piacque. Anche
da sola, anche non capendo tutte le battute. Continuo a ripetermi, a
sperticarmi sul Regno Unito, ma ormai l’avrete capito: diamine, questi qui ci
hanno dato Shakespeare! Ci hanno dato la banoffee pie! Ci hanno dato il brit
pop! Il tutto, tra l’altro, con un accento così snob che se ci penso mi attacco
alla gamba del tavolo tipo cane. Certo, ci hanno anche dato diversi microbi con
ogni viaggio fatto in terra d’Albione, ma che volete che sia un po’ di
sporcizia di fronte all’Immenso?
E
quindi, Love Actually lo dovete vedere. Perché È il film di Natale. Non mi
importa di quante volte replichino “Una poltrona per due”. Io voglio quella
pletora di pelle rosata e denti storti che sono gli inglesi. Dovete capire che
per me Natale è una faccenda seria. Io amo il Natale. È il periodo dell’anno
che preferisco. Crocifiggetemi pure, tanto a Pasqua risorgo. Amo il fatto che
mia madre, detta dal mio migliore amico “la vetrinista”, addobbi casa in un
modo che farebbe piangere di vergogna le visual merchandiser di Selfridges. Amo
il fatto di mangiare e bere come se il giorno dopo mi dovessero trapiantare il
fegato di un quattrenne. Amo vedere la gente che si sforza, che ci mette
impegno, code, sudate, per prendere quella cosa perché sa che farebbe felice quel
qualcuno. Amo vedere le persone che si sforzano per far felici mi altri. Mi
trasmette fiducia. Lo so cosa pensano i cinici, “Ah, capirai, solo una volta
l’anno e per la più commerciale delle feste”. È vero. È una volta l’anno.
Pensate se non ci sforzassimo neppure quella volta.
Quindi,
un film ambientato a Londra, nel periodo natalizio, con Hugh Grant, potrebbe –
seriamente – non piacermi? Si vede che è fatto con amore. Amore per il
risultato al botteghino, ma pur sempre amore. Nominateli a voce alta insieme a
me: Hugh Grant, Colin Firth, Emma Thompson, Keira Knightley, Bill Nighy, Liam
Neeson, Laura Linney, Alan Rickman, Rowan Atkinson, Billy Bob Thornton, Claudia
Schiffer, Rodrigo Santoro, Denise Richards, Andrew Lincoln, Elisha Cuthbert.
Per vedere così tanti attori di peso tutti insieme, l’unica alternativa è
sperare in un disastro idro-geologico che li spinga a mettersi al telefono a
chiedervi soldi. Poi la colonna sonora. Quell’insieme di canzoni pop melense mischiate
a Joni Torcibudella Mitchell, che non potrebbe essere più perfetto. Non fate
gli snob con me, lo so benissimo che quando siete al supermercato e si
diffondono le note di Britney Spears non potete fare a meno di battere il tempo
col dito sul carrello. E Hugh Grant. La sua faccia, la sua voce. Hugh Grant che
si innamora di una che ha culo e naso come un maiale, e non mi importa, riesco pure
a passare sopra al fatto che scelga una bruttona. Hugh Grant che fa Tony Blair
(perché l’endorsement, quello che funziona, si fa così. Chiedeteglielo, a Tony,
endorsato anche dalla Fielding in Bridget Jones). Perché è un film corale, e a
me le storie che si intrecciano piacciono: il cantante fallito che risorge (il
personaggio migliore), i due attori porno che si innamorano, il tipo innamorato
della moglie del miglior amico, il primo ministro che rischia le alleanze per
una sottana… E perché se c’è una cosa che gli inglesi sanno fare è far ridere,
e se un film me lo fai scrivere E dirigere dalla mente dietro “4 matrimoni e un
funerale”, “Il diario di Bridget Jones” e “Notting Hill”, beh, diciamo che stai
in una botte di diamantite, quella dello scheletro di Wolverine. E poi, quella
scena finale, Dio mio quella scena finale. Che mi fa iniziare a lacrimare come
un vitello cui abbiano strappato la madre. Che ogni volta che sto in un
aeroporto me la proietto mentalmente. E così ogni volta che sto in aeroporto
lacrimo come la Madonna di Civitavecchia.
La
vigilia dello scorso anno, finiva quella che credevo sarebbe stata la mia storia
definitiva. Diciamo che l’anno scorso Natale non era proprio il mio periodo
preferito. Qualcuno meglio di me ha detto che si è felici in miliardi di
maniere diverse, ma che si soffre tutti nello stesso identico modo. Il dolore,
come la paura, è universale. Durante le vacanze ero a Spoleto, dove la mia
famiglia e i miei amici di sempre mi circondavano di ovatta e di parole per
frastornarmi. Poi sono dovuta tornare a Milano, e alla nuova normalità. E
grazie a Dio ci hanno messo mano loro: colei con cui questo blog è nato, e
colei cui questo blog è dedicato. Per me hanno cucinato insuperabili ravioli di
zucca con salsa di sottiletta, mi hanno presentato amici dalle professioni
“artistiche”, mi hanno fatto spupazzare gatti riluttanti, hanno sfacchinato con
me in quello che a oggi è il trasloco più duro della mia vita. Nel frattempo un
anno è passato, le giornate hanno smesso di accumularsi, e hanno ripreso a
trascorrere. Ed è di nuovo Natale. E io, questo Natale, lo amo di più: è vero,
non avrò qualcuno da baciare sotto il vischio, ma ho chi mi tiene la scala
mentre mi arrampico per mettere la stella in cima all’albero, e mi aiuta a non
cadere.
Buon
Natale. E che il fegato vi benedica.